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Lotto marzo 2022: riprendiamoci le strade!

Negli ultimi due anni, è diventato sempre più evidente che non va affatto tutto bene.

La crisi generata dal Covid-19 è stata gestita mettendo al primo posto la produttività economica e il mantenimento di una normalità insopportabile. Una normalità fatta di precarietà lavorativa e dipendenza economica, discriminazioni di genere e omotransfobiche, violenza domestica e femminicidi, sfruttamento di chi compie il lavoro di cura pagato e non, cultura dello stupro, razzismo e criminalizzazione delle migrazioni. In poche parole, la normalità del patriarcato capitalista che prospera ogni giorno sulle nostre vite.

L’emergenza sanitaria si è innestata sulle disuguaglianze sociali che già c’erano e le ha peggiorate: quelle disuguaglianze continuano ad avvelenare la nostra quotidianità e a mantenere intatta la struttura violenta della società. Quella del Covid-19 non è una pandemia, ma una sindemia, dove la malattia e le sue conseguenze colpiscono più duramente le fasce della popolazione già svantaggiate, più fragili da un punto di vista sanitario anche perché vulnerabili socio-economicamente: quelle stesse persone diventano così sempre più ricattabili e sfruttabili.

I governi non hanno saputo fare altro che scaricare la responsabilità sulle persone, hanno imposto misure individualistiche e hanno ignorato totalmente la necessità di fare investimenti sistemici nella sanità. Un dpcm dopo l’altro, siamo state chiamate a caricarci la nostra parte di fardello sulle spalle e ad andare avanti lasciando il contesto invariato: potevamo al massimo lamentarci per la fatica che ci tocca fare, ma senza alzare troppo la voce per non disturbare i grandi piani di ripresa dei tecnocrati e di Confindustria.

Siamo state incoraggiate ad ignorare che i pesi dei nostri fardelli non sono uguali per tutti e che il peso deriva da ingiustizie strutturali; ci volevano costringere a non pensare a non considerare quello che possiamo fare insieme per liberarcene tutte e tutt*. Vogliono che ognuna si limiti a pensare a sé e a contribuire al Pil nazionale adempiendo ai propri doveri di consumo e dimenticandosi di essere connessa con le altre persone, pagando in silenzio i costi della sindemia e del sistema economico disumano che l’ha prodotta, limitandosi a sperare che, se le cose non vanno bene per tutte/*, vadano almeno benino per sé.

Produci, consuma e, se non crepi subito, si salvi chi può.

Per le donne, questo comporterebbe rassegnarsi al sessismo e alle molestie pur di mantenere un lavoro che consenta di sopravvivere, accettare senza fiatare il doppio carico della cura familiare e del lavoro, fare figli* per contrastare il calo demografico, fare qualsiasi cosa per mantenere il permesso di soggiorno, rimanere intrappolate in relazioni violente per non finire in strada. E, soprattutto, sentirsi sole.

Noi invece torniamo in piazza oggi per ribadire che non siamo sole e che dalla vita vogliamo molto di più. E che questo di più sia davvero e sempre per tutte, nessuna esclusa.

La libertà di una è la libertà di tutte e l’unico modo per avere dignità è lottare assieme alle altre per cambiare le dinamiche economiche che ce la negano, creare reti di solidarietà tra persone, mettere in  discussione il sessismo, il razzismo e l’eteronormatività che permeano la nostra cultura e la nostra storia, rinominare i luoghi e starci in maniera diversa, rendere gli spazi sicuri praticando il rispetto reciproco, sostenerci a vicenda nel disinnescare le relazioni tossiche che ci fanno soffrire.

Torniamo in piazza per urlare che dalla violenza non si esce invocando più poliziotti nelle strade, ma distruggendo insieme la cultura patriarcale che la produce e la dipendenza economica che intrappola le donne.

Che la salute non si cura cercando lo specialista privato migliore che ci si può permettere, ma rivendicando insieme un sistema sanitario pubblico, uguale per tutte e tutt* e vicino alle persone più che agli interessi economici.

Che la povertà non si sconfigge accaparrandosi le briciole lanciate sotto forma di bonus né consumando per “far girare l’economia”, ma rivendicando i nostri diritti sul lavoro e lottando insieme per eliminare quel sistema che ci rende sfruttabili.

Che il divario salariale di genere non si colma affannandosi per raggiungere i vertici delle aziende, ma pretendendo servizi di welfare pubblici e accessibili per tutte rifiutandosi di portare sulle proprie spalle il peso della cura del sistema capitalista.

Che lo stupro non si elimina chiamando pazzi gli uomini che lo compiono, ma lavorando insieme per educarci alla cultura del consenso, eliminando gli stereotipi di genere e portando l’educazione sessuale transfemminista nelle scuole.

L8 marzo, da sempre e oggi più che mai, è tutto questo. È rivendicare con forza tutto quello che possiamo fare collettivamente per sovvertire l’ordine delle cose. È non rassegnarci alla merda che ci succede ogni giorno perché potrebbe andare peggio. È rivendicare innanzitutto un modo diverso di stare al mondo in questo preciso momento storico: non come individui slegati dagli altri, ma come persone in relazione, che si riconoscono a vicenda e insieme decidono di lottare per il bene di tutte/*. È riconoscerci come donne e persone LGBTQIA+ in lotta perpetua contro il patriarcato. È ricordarci che nessuna si salva da sola.