In tutto il mondo, dall’Angola alla Palestina, il Primo maggio è la festa delle lavoratrici e dei lavoratori; a Trieste, è anche la festa della Liberazione dal nazifascismo per mano delle partigiane e dei partigiani del territorio e dell’Armata popolare jugoslava. Tradizionalmente, un grosso corteo si snoda in mattinata da San Giacomo – l’ex rione operaio delle barricate – fino al centro città. È una manifestazione celebrativa e di memoria, più o meno rivendicativa, il cui senso profondo mi è sembrato essere una sorta di rituale collettivo annuale, dove si va perché ci si è sempre andate, per salutare persone, per riconoscersi come appartenenti – per quanto a volte diversissime – a una collettività della sinistra cittadina, o quantomeno alla collettività di coloro che partecipano al corteo del Primo maggio. Certo, negli anni ci sono stati Primi maggi più combattivi di altri, quando le lotte politiche in atto in città trovavano in quel corteo un luogo dove manifestarsi: l’ultimo fu il Primo maggio incompatibile del 2018, uno spezzone «in rottura con la parata di subalternità organizzata dai sindacati confederali». Io ci sono stata una sola volta nella vita, l’anno scorso, il che mi ha impedito di percepirne i crismi rituali, e mi ha permesso di goderne la coralità festosa. Il Primo maggio triestino è poi una cartografia di luoghi – come Božje Polje/Campo Sacro, il circolo Svetko Pečar, la festa di Rifondazione a Križ/Santa Croce, Draga – tra i quali ci si muove ritrovando volti, canti, modi dello stare insieme.
Quest’anno le misure anti-diffusione del virus non permettevano di partecipare al corteo, e quindi nessuna manifestazione è stata organizzata: tuttavia, la Rete triestina verso il Primo maggio 2020 aveva invitato a scendere comunque nelle strade della città in mattinata, badando alla propria sicurezza e a quella altrui. E così, come attratte da una forza primitiva che il Primo maggio attira la città in un luogo, alcune decine, poi centinaia di persone si sono ritrovate in Campo San Giacomo.
Tra Lotto marzo, quando scegliemmo di non scendere in piazza collettivamente perché non erano ancora chiari i termini dell’epidemia e non ci sentivamo capaci di tutelare la salute nostra e quella delle altre in piazza, e il Primo maggio, quando i termini dell’epidemia erano ormai chiari e chiaro era che per tutelare la nostra salute dovevamo scendere in piazza, sono passati quasi due mesi.
In questi due mesi, sono rimasta viva perché non ho rispettato le regole.
Vivo da sola in un rione di periferia, la mia famiglia sta altrove e le amicizie e gli amori che ho in questa città non hanno più di trenta mesi. Questo posto è casa mia come altre città lo sono state per me per periodi più o meno lunghi; ho una rete di supporto solidale più solida della media delle mie amiche, come spesso capita a chi ha compagne. Sono una donna giovane, abile, in salute e con un reddito mensile che, per quanto scarso, non si è interrotto in questi mesi; non sono in contatto con persone immunodepresse né anziane. Detto questo, so che sono viva per tutte le volte che ho trasgredito le regole.
Io non posso assicurare, e lo dico con grande serietà verso me stessa e con infinito rispetto per chi ha dovuto affrontare cose peggiori in questo periodo, che se in questo periodo non avessi trasgredito le regole – e mi fossi quindi limitata a vedere soltanto le mie coinquiline (nessuna) e ad andare al supermercato e in farmacia (a 50 metri dalla porta di casa) – io non posso assicurare che non mi sarei ammazzata. È uno scenario che fatico a immaginare, perché fatico a immaginarmi rispettare pedissequamente regole che non ritengo giuste, ma sarebbe potuto succedere se solo fossi stata veramente costretta a non uscire di casa, per esempio se la quantità di guardie e militari fosse stata tale da rendere impossibili gli spostamenti di contrabbando, o se quel blocco – che ora non riesco a pensare se non come esterno – me lo fossi imposta io, per senso del dovere o per paura di contagiarmi o contagiare, come hanno fatto, legittimamente, in molte.
In questo periodo ho avuto qualche problema di salute, amplificato dalla vita sedentaria in pochi metri quadrati e dall’angoscia. Se non ci fosse stato qualcuno a prendersi cura di me, anche solo consegnandomi la sicurezza della consapevolezza che qualcuno, nel raggio di qualche centinaio di metri, sapeva come stavo e gli/le interessava prendersene cura, ecco, se non ci fosse stato, se non ci fossero state, io non so come sarebbe andata.
Questo Primo maggio sono capitata in Campo San Giacomo come ci sono capitate altre persone. Stavo facendo una passeggiata, come la stavano facendo altre migliaia di persone quel giorno in città e in Carso: in Friuli-Venezia Giulia, dal 27 aprile c’è libertà di movimento sul territorio comunale. Delle migliaia di passeggiate che si sono svolte a Trieste il mattino del Primo maggio, le uniche che sono state controllate a vista da uno schieramento di guardie, e che finiranno in multe e denunce, sono le passeggiate di chi in Campo San Giacomo c’era andata con un’intenzione che eccedeva quella di passeggiare. Il problema non era che fossimo in piazza, come noi c’erano molte altre persone: il problema è che noi stavamo dicendo qualcosa.
Trovarsi lì è stato, per me, a tratti surreale: prendevo atto per la prima volta che la quarantena mi aveva fatto sviluppare una disabitudine allo spazio pubblico e alla relazione. Nell’imbattermi in certi volti inattesi, nel muovermi disordinatamente nello spazio senza che stessi traslando rapidamente da un punto A a un punto B, nel poter finalmente dire qualcosa dopo settimane di bersagliamento da parole-cronaca e parole-ordinanze e parole-divieti, ho sentito come se stessi inghiottendo la prima boccata d’aria, dopo mesi di apnea.
Dopo una serie lunghissima di giornate prevedibili, nelle quali al mattino sapevo esattamente cosa sarebbe successo di lì a sera o comunque ero certa che nessun elemento esterno sarebbe intervenuto a scompaginare l’ordine del mio tempo privato, il Primo maggio 2020 è stato per me il primo incontro con l’imprevisto: quando ho messo piede in quella piazza non sapevo chi avrei incontrato, non sapevo cosa sarebbe successo, non sapevo come sarebbe finita. Però mi era chiarissimo che stavo facendo una di quelle cose che rende vita la vita; e ne provavo una gioia bambina.
Non si trattava di soddisfare una delle tante privazioni che si sono fatte desiderio nell’isolamento, come camminare in montagna (le mie montagne) o ballare sudata; lì stavo dando sfogo al bisogno dal quale dipende ogni altro desiderio e che mi pare dia ragione al mio stesso vivere: poter pensare e agire insieme ad altre nel mondo.
Nelle settimane precedenti, e tuttora, dopo che quella Libera Repubblica di Campo San Giacomo ha esaurito il suo esistere in poche ore, l’inquietudine maggiore mi è data dalle rovine intorno e dallo sfacelo a venire, dal sentire fortissima la pressione di un modo di vita che mi è estraneo («produci – consuma – crepa»), ma è che è tanto pervasivo da aver contagiato pure chi ne è oppressa. L’incombere della crisi economica e sociale che viene annunciata quotidianamente (e che in realtà è già in atto) produce un sentimento di angoscia personale e collettivo, come l’attesa di un bastone che ti prenderà in pieno collo mentre tu, a testa in giù, ti asciughi i capelli: però tu non ti stai asciugando i capelli, ma sei una precaria senza contratto, senza soldi, con un affitto da pagare in un posto dove non sai se vivrai ancora tra qualche mese. Il fatto che tu sia così fragile, che la maggior parte della società sia così fragile, permette di rendere quell’angoscia ancella del potere, facendone uno strumento del tuo stesso arretramento.
In questo momento storico dove chiunque abbia testa ha anche paura, questo Primo maggio è stato un piccolissimo aggrapparsi all’ottimismo della volontà. È stato, per me, dopo mesi, l’epifania dell’idea che, per quanto sgarrupate, potremo resistere, o che in ogni caso avrò qualcuna con cui tentare di farlo.
Questo Primo maggio è stato tuttavia anche la conferma di quel che già sapevamo: dopo due mesi di controllo incontrastato delle città, ringalluzziti dal rinnovato potere arbitrario che si sono trovati per le mani e da una campagna mediatica che ha reso ogni cittadino-malo un piccolo criminale e ogni bravo-cittadino un loro informatore, gli sbirri sono peggio di prima. Nel corso di qualche ora, nel giorno della Festa delle lavoratrici e dei lavoratori e della Liberazione della città, le guardie inviate a presidiare Campo San Giacomo hanno denunciato e minacciato una collettività e inscenato un sequestro di uno striscione (tenuto da tre persone a distanza di sicurezza); il loro obiettivo era convogliare l’attenzione mediatica nel cantuccio dello scontro tra tutori dell’ordine e «antagonisti» e occultare quello che stavamo dicendo: non abbiamo più un lavoro, non abbiamo più soldi, il capitalismo ci uccide. Protetti dalla retorica anti-contagio, presentandosi come garanti dell’ordine e della salute, loro – gli sgherri che ci vogliono morte di lavoro e di fame – hanno tentato di fare quello che hanno sempre voluto fare: tappare le bocche che denunciano le imposture, silenziare chi ride della nudità del re, fare deserti e chiamarli decoro. Il virus uccide, il capitalismo di più, diceva lo striscione sequestrato.
Sono uscita da quella piazza e da quella giornata con un bozzolo di felicità nel petto e un paio di certezze: voglio riprendermi una collettività pubblica, e non quella collettività carbonara che mi sono concessa in questi mesi; alla tutela della mia salute e di quella delle persone che amo terrò sempre più io che lo Stato, e rifiuto con forza l’accusa di aver messo in pericolo me stessa e altre scendendo in piazza; è necessario sabotare la distanza sociale, che già solo nel nome è tremenda, tutelandoci autonomamente attraverso una profilassi igienica e un parziale distanziamento fisico; chi ci vuole ammazzare è chi ci manda a lavorare ammassate o ci chiude in casa senza un reddito; se non ricominciamo a incontrarci e organizzarci, ci mangiano vive.
In quella piazza, migliaia di senza voce – gli arrampichini, le lavoratrici dei musei in subappalto, i senza reddito, i lavoratori organizzati della cultura e dello spettacolo, le e gli studenti a casa da mesi, le e gli insegnanti, le bambine e i bambini, le donne che vengono menate in casa più che mai, le sex-workers, i reclusi nel Cpr di Gradisca, noi tutte – hanno avuto voce: una voce senza megafono, perché, sia chiaro, «è fatto divieto di manifestare». Era la prima volta da più di due mesi.
Tra le macerie, con una paura atroce per quello che verrà, è stato per me il Primo maggio più bello di sempre: dopo due mesi in cui avevamo solo subìto, incassato, accettato de facto un discorso che ci rendeva responsabili di una situazione di cui siamo vittime, abbiamo per la prima volta chiamato i carnefici coi loro nomi. Sappiamo che la repressione picchierà fortissimo: già cinque compagne e compagni sono state denunciate mentre portavano fiori alla targa dei morti nei moti operai del 1902, dopo essere state trattenute indebitamente per un’ora dalla polizia. Ma questo Primo maggio ha indicato una via minima di sopravvivenza, una cosa che già sapevamo ma che – sotto quel sole e quei pañuelos – abbiamo sentito sulla pelle: nessuna si salva da sola.
Živel prvi Maj!
Una compagna di Non una di meno Trieste