Con oggi vogliamo cominciare a condividere alcune delle tante riflessioni che stiamo affrontando in questo periodo di quarantena. Cominciamo da qui:
NON ABBIAMO BISOGNO DI UN GOVERNO CHE CI INFANTILIZZA, MA DI RICONOSCERE NELL’ALTRA NOI STESSE!
L’emergenza sanitaria ci ha colte tutte impreparate. Al principio le più colpite dalle prime disposizioni sono state le famiglie con bambine e bambini, che si sono ritrovate a dover gestire le figlie che dall’oggi al domani non potevano più rientrare a scuola e contemporaneamente non potevano più accedere a corsi, ricreatori o doposcuola che scandivano le loro giornate. In quelle prime settimane, i primi ad adoperarsi per sopperire a queste necessità sono state nonne e nonni, nei casi in cui c’erano e ne avevano la possibilità; le famiglie senza nonne hanno dovuto ricorrere all’assunzione di tate in modo massiccio tanto che si scherzava sull’impennata del costo del babysitteraggio. A queste prime disposizioni che mettevano in quarantena solo alcuni comuni del nord ne sono però seguite altre precedute dall’intervento della Commissione di Garanzia che bloccò di fatto lo sciopero indetto per il 9 marzo: sciopero femminista e transfemminista fortemente voluto da NUDM per il quarto anno consecutivo. Come Non una di meno Trieste abbiamo cercato comunque di approfittare della giornata del Lotto marzo per far emergere fin da subito le contraddizioni insite nelle disposizioni che ci venivano imposte diffondendo brevi messaggi sui muri e sugli autobus della città.
Dopo pochi giorni la quarantena ha coinvolto tutta l’Italia e molti settori produttivi. Molte persone hanno dovuto interrompere la loro attività lavorativa fino a data da destinarsi, le più fortunate l’hanno trasformata in un lavoro da casa difficile da conciliare con la vita domestica, ma molto ben accetto per la possibilità di non perdere lo stipendio a fine mese. Altre persone sono state costrette a prendere ferie, altre a recarsi al lavoro senza garanzie e protezioni adeguate, mentre il numero dei contagi e dei ricoveri in terapia intensiva continuavano a salire. Gli scioperi spontanei che ci sono stati in alcuni settori sono serviti a far emergere in modo forte il problema che è stato “risolto” dal governo con la sigla da parte dei sindacati confederali del protocollo del 14 marzo che contiene soprattutto obblighi per lavoratrici e lavoratori e solo raccomandazioni per le imprese.
Nei giorni successivi, a botte di decreti, il governo ha bloccato ogni produzione ritenuta non necessaria, lasciando però discrezionalità alle industrie, tra le quali quelle belliche: per fare un esempio, la Leonardo ex-Finmeccanica (industria a partecipazione statale) non ha bloccato la produzione dei cacciabombardieri F-35 e non ha nessuna intenzione di sviluppare progetti di riconversione della sua produzione per scopi civili, quali, per esempio, elisoccorsi o ambulanze che, d’altra parte, il governo si guarda bene dal richiedere.
Noi ci domandiamo cosa davvero ci occorre oggi per far fronte a questa situazione di pandemia: siamo sicure che la risposta non è un cacciabombardiere in più.
Nessuna di noi vuole sottovalutare questa situazione di contagio (potenziale e reale) diffuso, ciascuna di noi sa bene cosa significa occuparsi di chi ha bisogno, e in generale ciascuna di noi, proprio perché parte da sé, dal proprio vissuto, cercando di interrogarlo costantemente, sa che la responsabilità verso sé e verso l’altra è fondamentale nella relazione. Ci siamo impegnate fin da subito in un costante esercizio di riconoscimento delle tante diversità che ciascuna di noi mette in campo, che ciascuna di noi vive ed è in questo esercizio che si sviluppa la cura e l’assunzione del proprio impegno, quella responsabilità individuale costruttiva che il governo sembra voler ignorare.
Noi non siamo responsabili della pandemia, e nemmeno della difficoltà da parte delle strutture sanitarie di farvi fronte. Di questo sono responsabili i tagli sistematici nei servizi sanitari degli ultimi 30 anni con tutto il loro corollario di dismissioni, di mancata formazione, di mancate produzioni di presidi. E’ responsabile chi ha prodotto l’inquinamento e lo sfruttamento intensivo delle materie prime del mondo guidato dal profitto capitalista, le decisioni dei governi di assecondare e favorire questi processi, ma non noi.
Noi non siamo incapaci di occuparci di noi stesse o delle nostre care, non abbiamo bisogno di un governo che ci infantilizza. Vogliamo indicazioni chiare, per quanto lo possano essere delle misure messe in atto per un’emergenza sanitaria così nuova, prodotta da un virus così poco conosciuto come quello attuale, abbiamo bisogno di avere quei presidi di protezione individuale (mascherine, guanti, igienizzanti) che sembrano essere così importanti e non vogliamo andarli a cercare a pagamento in giro per supermercati e farmacie, entrando in un cortocircuito logico per cui senza non ci si può muovere ma per averli ci si deve muovere.
Abbiamo bisogno di un’informazione corretta che ci spieghi, per esempio, quali tipi di mascherine proteggono più noi dalle altre e quali più le altre da noi. Abbiamo bisogno di sapere che anche i guanti possono contaminare, che non basta indossarli tutte ma che anzi, se questo diventa, come purtroppo è dimostrato, un motivo di abbassamento della guardia e dell’attenzione, forse è peggio.
Abbiamo bisogno di sapere cosa stanno facendo per la costruzione di strutture mediche permanenti, perché siamo tutte consapevoli che questo virus non se ne andrà per magia, ora che ha attecchito. Ci chiediamo perché, per esempio, tante risorse umane e professionali non vengano impiegate per questo, piuttosto che unicamente nel presidio poliziesco delle piste ciclabili delle città in cui la gente che vive in 30mq di appartamento vorrebbe uscire a prendere una boccata d’aria senza rischiare una multa.
Abbiamo bisogno di mass media capaci di raccontare quello che accade senza bisogno di esasperare una situazione che è già di per sé tragica; inseguire il lessico militaresco adottato da certi politici non significa fare informazione: questa non è una guerra, il virus non è un nemico, è un pezzo di DNA che non ha coscienza di sé. Questa prospettiva ci induce ad uno sguardo distorto della realtà, non permette di osservarla criticamente, ma contribuisce ad alimentare paura, terrore e controllo sociale, fomentando un’inutile tendenza securitaria che ci è stata così ben inculcata.
Non abbiamo bisogno di cittadine volenterose che si trasformano in vigilantes, che vengono invitati a esserlo, che chiamano le centrali delle forze dell’ordine per denunciare chi si ferma un po’ al sole in una piazza deserta o chi a distanza di sicurezza si scambia qualche battuta, o chi fa passeggiare all’aria le bambine e i bambini costretti tra le mura di casa da più di un mese.
Abbiamo bisogno di riconoscere nell’altra noi stesse in un meccanismo empatico che non è solo guidato dal “volemose ben”, dal “siamo tutte sulla stessa barca” (anche perché non è così! ci sono barche molto costose e barche che sono bagnarole, altroché!) ma piuttosto dal fatto che l’altra di fronte a me fa parte di una rete sociale nella quale ciascuna di noi è immersa, un legame che si basa sulla fiducia di essere trattate come tratteremmo, di essere curate come cureremmo, di essere aiutate, capite, sostenute, come aiuteremmo, come capiremmo, come sosterremmo, perché se è vero che le condizioni materiali fanno una differenza bestiale è pur vero che queste possono essere redistribuite.
Insieme siam partite,
insieme torneremo,
NON UNA DI MENO!