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Non siamo sole né solo lavoratrici: sul Primo maggio triestino e sul diritto di manifestare

Poco più di una settimana fa è stato il Primo maggio, data che a Trieste corrisponde non solo alla festa delle lavoratrici e dei lavoratori, ma anche al giorno della liberazione dal nazifascismo ad opera dell’Armata popolare jugoslava e delle partigiane e dei partigiani del territorio. Consapevoli delle restrizioni vigenti, buona parte delle realtà dell’attivismo triestino si era organizzata nella “Rete triestina per il 1° maggio 2020”, invitando chi volesse a scendere in strada per la propria passeggiata con un cartello o messaggio visibile, nel rispetto delle distanze di sicurezza e della tutela di sé stesse e delle altre.
Da sempre il corteo del Primo maggio triestino, è quel luogo e tempo politico in cui tante lotte cittadine si intrecciano e si riconoscono.
Luogo di partenza del corteo è, da quasi vent’anni, proprio Campo San Giacomo. Anche quest’anno alcun* attivist* e cittadin* si sono ritrovat* in quella piazza dopo un passaparola informale. Inizialmente si trattava di appena qualche decina di persone che circolavano nella piazza a debita distanza di sicurezza, indossando protezioni per il naso e la bocca nonostante si fosse all’aria aperta, nel rispetto di quanto disposto dalla Regione.
È bastato che tre attivisti, disposti a distanza di sicurezza, srotolassero uno striscione che recitava “IL VIRUS UCCIDE, IL CAPITALISMO DI PIU'”, perché una decina di poliziotti e digossini, presenti fin da principio a presidiare la piazza, si avventassero su di loro, pretendendo la rimozione dello striscione. A seguito della resistenza opposta dai compagn*, lo striscione è stato strattonato: i poliziotti hanno completamente ignorato ogni norma di tutela sanitaria, non rispettando le distanze di sicurezza e creando di fatto un vero e proprio assembramento.
Si è trattato di un atto di repressione totalmente gratuito e provocatorio, a cui la piazza ha prontamente risposto esprimendo la volontà di rimanere lì. Si è data così l’occasione anche per chi semplicemente passava da San Giacomo, di riconoscersi, ritrovarsi, improvvisare una performance teatrale, cantare assieme, poter dire qualcosa con parole che fossero nostre, sui tanti temi tacitati in questi due mesi di quarantena, dopo settimane in cui non si era data alcuna possibilità di espressione collettiva su quanto stava accadendo e in cui l’unico discorso esistente è stato quello che ha, di fatto, trasformato una questione sanitaria in una mera questione di ordine pubblico, invocando come unica soluzione a tutti i problemi il “distanziamento sociale”.
Anche se questo episodio ha attirato gran parte dell’attenzione dei media ufficiali, non è stato l’unico caso di repressione che ha caratterizzato la giornata. Nella stessa mattinata in un’altra piazza della città sono state multate cinque compagne/compagni per aver provato a mettere un cartello in memoria dei lavoratori massacrati nel 1902 durante uno sciopero in quella stessa piazza. Sono state accerchiate da una decina di poliziotti, e trattenute sul posto per più di un’ora. Nello stesso momento venivano multati anche tre artisti di un’associazione, presenti in piazza con alcuni quadri che avevano appoggiato a terra.

Abbiamo appreso molto in fretta quanto sulla libertà di espressione e manifestazione ci fossero evidentemente due pesi e due misure. È stato palese che, mentre il Primo maggio le forze del (dis)ordine hanno cercato di tacitare immediatamente la piazza di San Giacomo, sabato 2 maggio a Monfalcone, la sindaca ha appoggiato il sit-in di piccoli imprenditori, lodando la loro iniziativa e raggiungendoli sul luogo della manifestazione per sollecitarli a muoversi e a non creare assembramenti. Sabato 9 maggio, in piazza Unità a Trieste, c’è stata una manifestazione di negozianti e commercianti organizzata e supportata da vari gruppi di estrema destra, uno dei quali siede anche in consiglio comunale. A quanto pare, da questa iniziativa, dovremmo rilevare che non solo manifestare si può, purché esprimendo idee conformi a quelle del governo nazionale e regionale, ma che non si pone alcun problema rispetto alla presenza nella piazza centrale della città di un assembramento organizzato con tanto di microfoni e impianto audio, di esponenti di gruppi politici che si rifanno apertamente a idee nazifasciste.

Noi in campo San Giacomo, il Primo maggio, ci siamo volute rimanere, con le nostre sorelle e compagne, con i senza reddito, i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo, le lavoratrici museali in subappalto e le tante che da lì sono passate. Lì abbiamo voluto dar voce a tutte le donne che ora più che mai stanno svolgendo quel lavoro di cura mai riconosciuto e retribuito, alle tante vittime di violenza domestica per cui lo slogan “restate a casa” cantilenato dal governo e dalla maggior parte dei canali di informazione, non è mai risultato troppo rassicurante. “E la colpa non è mia, né dentro casa né per la via” recita una strofa del flash-mob “Un violador en tu camino” che questo Primo maggio abbiamo voluto riproporre tutte insieme, per ricordarci che se c’è qualcuno che compie violenza di genere questo è quasi sempre un maschio e in molti casi ha le chiavi di casa.

Con noi quel Primo maggio abbiamo portato anche le voci delle insegnanti; delle bambine/i e adolescenti lasciate a casa da mesi, abbandonate alla didattica a distanza (che peraltro solo nella nostra regione ha già lasciato esclus* ben 15.000 studentesse e studenti); delle badanti e delle lavoratrici domestiche, costrette a scegliere, in seguito alla chiusura dei confini, tra reddito, salute e affetti personali, troppo spesso lasciati indietro per condizioni lavorative semi-schiavili, e i tanti soggetti che la pandemia ha ulteriormente reso invisibili come le sexworkers, le recluse e i reclusi in carceri e Cpr.

Anche senza megafoni, quel giorno in quella “Libera Repubblica di San Giacomo”, come l’ha definita qualche giorno fa una nostra compagna in una sua testimonianza su quella giornata, era importante dire qualcosa, era importante dire le tante cose su cui in questi mesi abbiamo riflettuto tramite assemblee telematiche, e-mail, telefonate, senza mai poterci guardare in faccia l’una in presenza dell’altra; era la prima volta che avveniva da quando Lotto marzo scorso decidemmo di non scendere in piazza, consapevoli dell’aggravarsi della situazione di emergenza sanitaria.

Come abbiamo detto e scritto però anche in altre occasioni, le pandemie e le sue conseguenze non solo sono il frutto dell’intervento dell’uomo e delle logiche di profitto economico sull’ambiente circostante, ma sono anche altamente prevedibili. Sappiamo che, alle spalle dell’emergenza sanitaria, ci sono precise responsabilità politiche: quelle, per esempio, di chi a contagio iniziato, ha atteso settimane per fare chiudere le principali attività produttive e industriali presenti proprio in Lombardia e nell’epicentro del contagio.

È noto che quasi 200.000 imprese hanno fatto domande di deroga della sospensione delle attività, nonostante non rientrassero tra quelle operanti nei settori essenziali. Su poco più della metà di queste domande sono state fatte verifiche burocratiche, fatte cioè in Prefettura, e solo per 2631 (fino al primo maggio), cioè il 2,3%, sono stati adottati provvedimenti di sospensione, mentre per le restanti vale il silenzio assenso, vale a dire che queste aziende possono continuare a tenere aperto. Dati sui controlli sull’adozione di misure di sicurezza per * lavorator* in loco non vengono forniti. Leggiamo, invece, quotidianamente sui giornali il bollettino dei controlli e delle multe fatti a singole persone per strada, tra l’11 marzo e il 27 aprile sono stati oltre dieci milioni, quasi seimila denunce e 386.872 (3,5%) sanzioni. Anche qui valgono due pesi e due misure.

Se c’era davvero qualcosa che la piazza di San Giacomo, il Primo maggio, ha provato ad esprimere è che noi non abbiamo nessuna intenzione di pagare gli effetti catastrofici della pandemia e della crisi conseguente; che non vogliamo tornare al lavoro per lavorare di più e peggio di prima, ma che, al contrario, vogliamo reddito e misure di sostegno adeguate, laddove soprattutto, quelle promesse (spesso del tutto insufficienti) in molti casi non sono nemmeno arrivate.

La repressione subita e che temiamo per i mesi a venire ci fa capire che il diritto di espressione e di parola non sarà affatto garantito e che dovremo lottare per riprendercelo e riaffermarlo, dovremo saper tessere reti e relazioni con tante e tanti, negli interstizi di libertà lasciati dal delirio amministrativo delle varie ordinanze e d.p.c.m..

Come abbiamo affermato in una delle prime riflessioni collettive che pubblicammo all’inizio della quarantena, “non abbiamo bisogno di un governo che ci infantilizza”, quanto piuttosto di ottenere informazioni e strumenti adeguati a poterci autotutelare. Non ignoriamo l’esistenza di una questione sanitaria, e, per quanto questa nella nostra regione risulti ora più contenuta che in altre, siamo consapevoli che l’emergenza non è finita e non è il momento di abbassare la guardia. Ci prenderemo sempre cura delle persone con cui entriamo in relazione, molto più di quanto non faccia in molti casi la pubblica elemosina. Anche e proprio per questo noi non saremo mai la piazza per riapertura di ogni attività lavorativa a tutti i costi. La ripresa di qualsiasi attività deve essere subordinata alla garanzia di tutela e salute, e non alle pressioni dei poteri forti dell’economia che si preoccupano unicamente dei loro profitti.
Noi non intendiamo pagare questa crisi, vogliamo che la crisi la paghino i ricchi, che venga redistribuito il reddito e ci vengano dati i soldi per il lavoro (ri)produttivo svolto da noi donne, che la nostra salute venga prima di qualsiasi profitto. Rifiutiamo l’atomizzazione sociale e la logica familista che ci vuole ridurre a “uomini, donne, famiglie”; vogliamo un reddito di base, tutele, concretezza da chi ci ha esposto al rischio e da chi questa crisi l’ha gestita, trattandoci come carne da macello per poi metterci il bavaglio e comprarci con l’elemosina.

Esprimiamo solidarietà a tutte le compagne e i compagni che hanno subito la repressione da parte delle f.d.o nella giornata del Primo maggio e ribadiamo che se non siamo mai state tutte sulla stessa barca, lotteremo affinché nessuna venga lasciata indietro.

Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema e ora, più forte di prima, urleremo la nostra dichiarazione politica e d’amore per le nostre compagne e sorelle:

NON UNA DI MENO, INSIEME SIAM PARTITE, INSIEME TORNEREMO!